“Torneremo in presidio a Montecitorio, il Natale lo passeremo davanti al Parlamento e siamo disposti nuovamente ad incatenarci, non possono continuare a far finta che siamo dei fantasmi”. Lo ha affermato Cristina Amabilino, moglie di uno dei 18 marittimi (sei italiani, otto tunisini, due indonesiani e due senegalesi) tuttora “in stato di fermo” nella caserma-carcere di El Kuefia, a pochi km da Bengasi. La diplomazia italiana sta monitorando la vicenda sin dall'inizio e l'argomento è stato discusso anche a margine del Foro di “Dialogo Politico Libico” svolto a Tunisi nelle scorse settimane, durante la quale ha definito assieme a Francia, Germania e Regno Unito una tabella di marcia per arrivare ad elezioni nazionali il 24 dicembre del prossimo anno.
Qualche giorno fa Italia e Libia (quella parte Tripolitana governata dal GNA) hanno firmato un accordo per il rafforzamento della cooperazione tra i due Paesi in ambito Difesa. Il ministro della Difesa del governo di Tripoli, Salahuddin Al-Namroush, a Roma, in una intervista in esclusiva a “Il Giornale”, rispondendo alla domanda del collega Fausto Biloslavo in merito ai 18 pescatori detenuti a Bengasi da oltre mesi, ha detto: “Il vostro ministro degli Esteri mi ha chiesto come possiamo aiutarvi ed ho risposto che fate parte dell'Unione europea e dovreste chiedere aiuto alla Francia.
Jean-Yves Le Drian ha buoni rapporti con Haftar. Può intervenire favorevolmente in questa vicenda". L'accusa avanzata ufficialmente ai pescatori da parte del Comando dell’LNA che governa la Cirenaica è di aver violato le “acque territoriali libiche”, pescando all'interno di quella che ritengono essere un'area di loro pertinenza, la cosiddetta Zee (zona economica esclusiva) che si estende 74 miglia dalla base di costa, mai riconosciuta dalla comunità internazionale. Nei giorni seguenti al sequestro le milizie di Haftar hanno contestato anche il traffico di droga, come documentato da alcune fotografie pubblicate in esclusiva da AGI in cui si vedono dei panetti posizionati sulla banchina del porto di Bengasi, con il peschereccio “Medinea” sullo sfondo; una vera e propria montatura (non è la prima volta che i libicio si cimentano in tali inganni) da parte delle autorità marittime cirenaiche nel tentativo ci costruire delle prove di colpevolezza nei confronti dei pescatori.
Più volte in questi lunghi 97 giorni della richiesta, mai ufficializzata da Haftar & Co. di uno “scambio di prigionieri”, di estradizione di 4 libici condannati in Italia come scafisti di una traversata in cui morirono 49 migranti. Lo scorso 11 novembre i familiari hanno potuto parlare con i pescatori, nel corso dell'unica telefonata collettiva organizzata dalla Farnesina. Durante la conversazione però non è stato concesso alcun colloquio ai familiari dei marittimi stranieri (anche questa vicenda quando i pescatori verranno liberati, speriamo al più presto, sarà da chiarire per bene)la vi.
“La nostra richiesta è sempre la stessa: rivogliamo a casa i nostri familiari. Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo, ma ancora non è cambiato nulla, cos'altro dobbiamo fare? La telefonata che ci hanno concesso testimonia che sono ancora tutti vivi, ma non vuol dire che sono in buone condizioni” –ha sottolineato Cristina Amabilino. “Nelle prime settimane ci hanno chiesto silenzio e abbiamo evitato di alzare ogni polverone, ma adesso siamo disposti a tutto - dice Marika Calandrino, moglie di un altro dei marittimi in Libia - aspettiamo la telefonata giusta da un momento all'altro.
Non sappiamo più cosa dire. Stanno trattando i nostri pescatori come dei terroristi, umiliati per aver provato a portare un pezzo di pane a casa”. Dopo quella telefonata si sperava, lo speravano tutti, in una soluzione rapida della vicenda ed invece è calato nuovamente silenzio da parte del Governo (a parte una incomprensibile dichiarazione in una trasmissione Rai del ministro Di Maio sul fatto che i pescatori non si dovevano recare in quelle acque), chissà forse per non “inquinare” il suddetto accordo con il Governo di Tripoli.
In questo contesto non è insensato pensare che la telefonata concessa ai soli familiari italiani sia stata finalizzata ad allentare la pressione mediatica, nazionale ed internazionale, sul Governo esercitata dall’opposizione con le manifestazioni davanti il presidio allestito dai familiari a Montecitorio; dopo quella illusoria telefonata, in molti hanno convinto i familiari a Roma a tornare a Mazara del Vallo per continuare la loro protesta in aula consiliare. Oggi, purtroppo, alla luce dei fatti, probabilmente questo non è servito a nulla.
Lo hanno capito Cristina Amabilino e tutte le mogli, madri e figlie dei pescatori sequestrati (in foto copertina alcune di loro); le donne sono sempre le prime a capire... Così torneranno a Roma nelle prossime ore, l’obiettivo non è solo far sentire la propria voce al Parlamento e al Governo ma anche al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale proprio ieri in occasione dei 30 anni del tragico incidente in cui 12 studenti rimasero uccisi da un aereo miliare precipitato in fiamme nella loro scuola di Casalecchio di Reno, ha dichiarato: “La sicurezza è un diritto di cittadinanza”.
Siamo d’accordo Presidente ma ci chiediamo: “questo diritto vale anche per i pescatori di Mazara del Vallo che esercitano il loro lavoro in acque che risultano, almeno fino ad oggi, internazionali?”. Francesco Mezzapelle