In memoria di Giulia
e di tutte le donne vittime
di violenza.
Muore Giulia a soli 22 anni. Avrebbe dovuto laurearsi in ingegneria biomedica. Orgoglio immenso per la sua famiglia. Lei così giovane e brillante, con un sorriso ingenuo, dolce, capelli lunghi e castani, occhioni profondi. Una tesi pronta a cui mancava soltanto l’ultimo tassello. Essere consegnata e poi discussa. Il giorno della proclamazione sarebbe stata radiosa. Manca un ultimo tassello che mancherà ormai per sempre. Una fuga misteriosa a bordo di una Punto con il suo ex fidanzato, Filippo.
Poteva essere una fuga d’amore per ritrovarsi dopo mesi in cui i due ragazzi si erano lasciati. Una fuga per il Nord Italia, da città in città, da regione in regione. La Punto non si ferma, sembra non avere una meta. L’appello accorato dei genitori dei due ragazzi: “Tornate a casa.” Un appello senza ascolto e una denuncia disperata. Dove sono i due giovani? Perché sono fuggiti? Non è una fuga d’amore romantica, per sancire un chiarimento definitivo e una ripresa felice di un amore tra due innamorati presi dalla voglia di allontanarsi da tutto e tutti per ritrovare sé stessi.
E’ una fuga dell’orrore. Giulia in quella macchina non voleva starci, come non voleva finire a rotolare per metri in un burrone fino ai margini del lago di Barcis. Giulia non voleva fuggire con il suo ex. Voleva restare a casa con suo padre e i fratelli che amava. Consegnare la tesi, prepararsi al grande giorno, diventare un ingegnere biomedico, proseguire nella sua carriera, divenire una giovane donna professionista con tanti sogni da realizzare e speranze nel cuore da tramutare con fatica e tenacia in realtà.
Giulia non voleva quei calci e quelle botte da Filippo, non voleva gridare: “Mi fai male”. Voleva fuggire. Sì, ma da lui. Da quel bravo ragazzo che diceva di amarla. Quel ragazzo che era stato il suo fidanzato con cui aveva vissuto attimi di tenerezza e passione. Giulia voleva fuggire da quelle mani che avevano un pugnale e che ripetutamente in una feroce colluttazione l’hanno colpita fino al colpo mortale. Giulia, l’ennesima vittima del 2023 di uno “Stato patriarcale e maschilista, uno Stato incapace di difendere le sue figlie”, dice Elena, la sorella di Giulia, in uno dei post scritti con rabbia lucida sui social.
Un numero, un corpo massacrato di botte e coltellate, un nome che si aggiunge alla lista. E adesso l’appello cambia: “Filippo, costituisciti!” Filippo torna da questa insensata fuga per le regioni del Nord Italia e del Nord Europa. Torna per spiegare quello che è successo. Certo la dinamica è importante per stabilire i reati commessi. Le Forze dell’Ordine, la Magistratura devono seguire il loro iter. Bisogna capire se sia stato un omicidio premeditato o se un omicidio preterintenzionale.
La pena deve essere adeguata al reato. Quanti anni di carcere? Otto, dieci, quindici? Forse l’ergastolo? Filippo è stato arrestato vicino Lipsia, in Germania, mentre era fermo in autostrada. Ora dovrà spiegare il perché di tanto orrore, se mai sia possibile farlo. L’unica certezza, in una storia ancora tutta da chiarire è che nessuna pena, nessun carcere, nessuna condanna restituiranno Giulia alla sua vita, alla sua famiglia, ai suoi amici. Ai suoi traguardi da raggiungere e festeggiare, al suo futuro di donna che avrebbe meritato avere, condividendolo con chi la amasse sul serio.
Suo padre scrive in un post sui social un messaggio che ormai non è più purtroppo per la sua Giulietta ma per tutte le altre ragazze che ancora possono salvarsi, mettersi in fuga dai bravi ragazzi-orchi. “L’amore vero non urla, non picchia, non uccide.” Gino Cecchettin, il padre di Giulia mostra una forza sovrumana e nel dolore atroce e inimmaginabile per una figlia ritrovata massacrata, riesce a pronunciare parole di compassione perfino per i propri ex consuoceri.
Sente il dramma che stanno vivendo anche loro. E’ vicino ai genitori di Filippo, da padre, perché sa sulla propria pelle, cosa significhi il dolore che non può spiegarsi. Apprendere che un figlio sia un carnefice deve essere un dolore immenso quanto apprendere che una figlia sia una vittima innocente. Due volti atroci della stessa efferata medaglia. Due famiglie devastate, due giovani distrutti dalla dinamica della violenza, dell’amore insano, tossico, brutale. Un amore trasformato in orrore.
Fin qui, tutto è già stato raccontato dai media, dai social, dalle dichiarazioni dei familiari. E’ cronaca nera. Siamo a pochi giorni dal 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Giornata istituita dall’ONU nel 1999, in ricordo delle tre sorelle Mirabal, deportate, violentate e uccise il 25 novembre del 1960 nella Repubblica Dominicana. 1960- 2023, quanti anni sono trascorsi? Che importa? Quante donne sono state violentate e trucidate senza pietà in questi decenni? Si è smarrito il conto.
Non è quasi possibile stare dietro la scalata vertiginosa della violenza di genere. Giulia sarà collocata in questa lista. Altro caso di femminicidio. Ogni 72 ore muore una donna per mano di chi diceva di amarla, per mano dell’uomo di cui si fidava. Perché l’orco troppo spesso non è lo sconosciuto. L’orco è l’ex compagno, l’ex marito, l’ex fidanzato, l’ex amico. Oppure, non è neanche necessario aggiungere il prefisso ex. E’ l’uomo, il ragazzo, il compagno con cui dormi, con cui esci, con cui progetti una famiglia, dei figli, una casa, una vita da trascorrere insieme piena di dolcezza, cura, protezione, rispetto, amore.
Giulia resta lì, in quelle parole accorate e inascoltate: “Mi fai male”. Resta in quelle grida di dolore, in quella difesa strenua dalle mani feroci che l’hanno picchiata, colpita ripetutamente senza alcuna compassione. Non saranno bastate le urla, le lacrime, le parole. Non è bastato nulla per contenere la furia assassina di Filippo. Ancora una volta la fiducia è stato il terreno prolifico in cui si è annidata subdola la violenza e la morte. Le donne allora sono colpevoli di fidarsi di chi dice loro che le ama, che vuole risolvere tutto, salvare tutto, cambiare, diventare un uomo migliore, ricucire un rapporto d’amore, mettere i pezzi franti a posto, dimostrare che l’amore supera tutto, vince tutto, può tutto.
Sono colpevoli di credere che la fiducia sia il seme del dialogo, del rispetto, dell’incontro con il mondo dell’altro. Sono colpevoli di salire in macchina con l’ex fidanzato o compagno, di andare ad un appuntamento chiarificatore, di bere un drink insieme, di partecipare ad una festa fino a notte inoltrata, di indossare abiti sexy, calze appariscenti e tacchi, rossetti e trucchi accesi. Sono colpevoli di studiare, avere sogni, desideri, pulsioni, obiettivi da raggiungere.
Sono colpevoli di non essere oggetti, cose da usare e gettare via, bamboline da sfoggiare con gli amici, trofei da esibire. Sono colpevoli di avere votato nel giugno del 1946 in Italia per la prima volta, come gli uomini. Colpevoli di aver detto no a chi voleva sopraffarle, possederle, usarle, strumentalizzarle, manipolarle, annullarle, zittirle, annientarle. Sono colpevoli di pensare, parlare, opporsi, rifiutarsi. Chi scrive è donna, madre di una adolescente, docente di tanti ragazzi che vede crescere tra banchi, corridoi e aule di Liceo prima di prendere il volo verso l’Università.
Parlo per ore con i miei ragazzi e con mia figlia per spiegare quale sia la differenza e il confine sottile tra amore sano e amore tossico. Ogni anno racconto perché sia nata e celebrata la giornata del 25 novembre. Che senso abbia ancora oggi parlarne, discuterne, scriverne. Eppure nulla è mai abbastanza. Non ci sono convegni, sportelli di ascolto, dibattiti, articoli di giornali, storie vere, libri, progetti sufficienti. Sembra tutto aleatorio, fugace, approssimativo, quasi retorico.
Tante belle e profonde parole che non riescono a trovare appiglio e presa. Non riescono ad arrivare dentro. Non scendono negli abissi fragili e distorti di anime incapaci di amare e di anime incapaci di accettare di non essere amate. Siamo zattere senza approdo. E in questo mare sterminato di volti di ragazze e donne violentate, seviziate, uccise in tutti i modi possibili, va a fondo la nostra umanità. Rotola in quel dirupo non solo Giulia, l’ennesima vittima di femminicidio del 2023. Rotolano e si disintegrano le Istituzioni tutte.
Famiglia, Scuola, Magistratura, Forze dell’Ordine. Psicologi, docenti, educatori. Quello Stato che doveva esserci e non c’è come ha scritto Elena. Quella famiglia che doveva fare qualcosa in più e non c’è riuscita. Quella Scuola che doveva fermarsi ancora un pò ad ascoltare e a guardare e forse non lo ha fatto abbastanza. Quelle Forze dell’Ordine e quella Magistratura che forse dovevano agire prima e non dopo, quando ormai è stato troppo tardi. Quei docenti che potevano magari prestare più attenzione a quel disagio emotivo e relazionale dei propri alunni.
Quegli psicologi che dovevano monitorare e intervenire in supporto di famiglie, adolescenti e Scuola, allertati in tempo utile, dagli organi competenti. Siamo tutti in quel dirupo, vicino il lago di Barcis. Sembra che la storia voglia mantenere sadicamente connotati fiabeschi nel suo orrore smisurato. Un lago dalle acque di colore verde brillante, dei monti, dei boschi mozzafiato e lì, ferita, vilipesa, massacrata, rinnegata, tradita, umiliata sta una umanità indegna, impotente, incapace di amare, proteggere, prendersi cura e cambiare.
Bia Cusumano