Trapani, lo spettacolo "Mishaela" racconta la Shoah agli studenti

Articolo a cura degli studenti del liceo "Fardella-Ximenes".

Redazione Prima Pagina Trapani
Redazione Prima Pagina Trapani
29 Gennaio 2023 21:58
Trapani, lo spettacolo

Nel 78° anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz va in scena al Teatro Ariston di Trapani, colmo di alunni anche del Liceo Fardella-Ximenes, lo spettacolo di danza e recitazione “Mishaela”, testo e regia di Max Di Bono. 

Per la scrittura dello spettacolo, l’autore ha preso spunto da alcune opere di Hannah Arendt, “La vita della mente”, “La banalità del male” e “Le origini del totalitarismo”, che indagano la figura di Adolf Eichmann a processo, il rapporto fra società e totalitarismo e le ragioni culturali e psicologiche della dittatura, con intensi riferimenti nello svolgimento dello spettacolo. La rappresentazione si apre con un clima intimidatorio, sviluppato su un’ipotetica applicazione immediata delle leggi razziali nazi-fasciste, così da coinvolgere il pubblico, da parte della co-protagonista, un alto ufficiale interpretata magistralmente dall’attrice Josefina Torino. Fra una scena e l’altra, le coreografie eseguite da Mariele Chiara e Maria Giovanna Grignano. Contrapposta al personaggio di Josefina, l’altra co-protagonista interpretata da Francesca Azzena.

Lo spettacolo è un intenso scambio di battute che rappresentano da un lato la resistenza contro le atrocità e dall’altro il nazismo e i suoi seguaci, con una profonda introspezione delle ragioni psicologiche, come l’insicurezza, la voglia di potere, lo smarrimento, che hanno portato il personaggio di Josefina, e che potrebbero portare altri in futuro, a seguire le idee di uno Stato dittatoriale e violento. Lo spettacolo, chiudendosi con un inquietante previsione sulla ripetizione di tali crudeltà, accende una riflessione sul rischio dell’omologazione incosciente della società.

Abbiamo posto qualche domanda al regista e alle interpreti sul significato profondo dello spettacolo e sulle loro sensazioni nel metterlo in scena. Al regista Max Di Bono, abbiamo chiesto se in un mondo nel quale i testimoni diretti della Shoah ci stanno lasciando, lo spettacolo sia effettivamente un mezzo appropriato per tramandare la memoria e cosa si possa fare per migliorare ulteriormente la consapevolezza della società civile. La risposta del regista è che la cultura in tutte le sue forme è il mezzo giusto per conservare il ricordo e lo è ancora di più se unita al ruolo di una scuola che educhi alla memoria e ad assumere un atteggiamento critico nei confronti di nuove aberranti derive. 

Con Francesca invece abbiamo parlato delle sue esperienze nella recitazione e se avessero già incluso ruoli immersi in un clima di terrore, l’attrice ci ha risposto di no rimarcando la crescita personale e artistica guadagnata con l’impegno richiesto dallo spettacolo. Da qui la riflessione su quanto lo spettacolo abbia accresciuto la loro conoscenza sulla Shoah, dato il loro lavoro di preparazione. La discussione si è poi spostata su un approfondimento dei personaggi da un punto di vista emotivo.

Francesca, rispondendo alla nostra domanda, ci ha rivelato come si sia avvicinata al personaggio una volta arrivata alla consapevolezza di doverlo lasciare dopo lo spettacolo, attraverso un percorso mirato a dare voce a vittime e oppressi. Josefina, invece, ci ha spiegato come il suo personaggio abbia anche affrontato momenti di ripensamenti, superati però dal suo orgoglio e fedeltà al nazismo. Proprio a Josefina abbiamo poi chiesto come sia stato interpretare un personaggio così complesso, lei ci ha confermato quanto sia stato difficile entrare nel ruolo, anche considerando la sua storia familiare che ha avuto piacere di condividere con noi.

L’attrice è infatti argentina e ha vissuto la sua infanzia in un Paese oppresso da una dittatura fino a pochi anni fa; ci ha per questo spiegato come sia rilevante che chi conserva esperienze più recenti di regimi autoritari e oppressioni ravvivi la memoria di chi va via via perdendola. Josefina si è sentita molto coinvolta anche per via del ricordo di suo nonno militare, congedatosi dall’esercito argentino per non supportare la dittatura, e di un’amica di famiglia ebrea, di cui ricorda il tatuaggio dei numeri di identificazione sul polso, segno del suo passato da deportata del regime nazista.

La rappresentazione di cui abbiamo parlato, raccogliendo anche le considerazioni dei nostri coetanei, ha riscosso notevole interesse, anche perché efficacemente adattata per un pubblico giovanile, a tratti sorpreso dalla forte e a tratti provocatoria forza espressiva degli attori.

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