È il 14 settembre 1988, sono circa le 8 del mattino e a Locogrande tutto avviene in silenzio: bastano tre colpi di pistola per uccidere Alberto Giacomelli, un magistrato trapanese in pensione da quindici mesi. Tre colpi di pistola ma così tanto sangue che il Comune, poco dopo, fu obbligato a rifare il manto stradale.
Dopo la morte furono tante le piste: c’è chi parlò di delitto passionale e chi avanzò l’idea che l’omicidio fosse dovuto a questioni di terreni in quanto il magistrato era appassionato di agricoltura. Il vero motivo di quell’omicidio, però, fu una firma di Giacomelli che risaliva al gennaio del 1984 e che causò il sequestro e la conseguente confisca dei beni di Gaetano Riina, fratello di Salvatore.
Un delitto definito più di “casa nostra” che di “Cosa Nostra”, perché quel provvedimento – la cui responsabilità ricadeva su Giacomelli – aveva colpito la famiglia mafiosa per eccellenza: i Riina.
Sono passati trentatré anni da quando la città di Trapani si svegliò con la notizia di quell’omicidio, l’unico caso in cui ad essere ucciso fu un giudice in pensione. L’unico che, però, si unisce ai tanti omicidi dimenticati. Perché di Alberto Giacomelli, ormai, sono in pochi a conoscere il suo lavoro e la sua storia.
Negli anni, poi, poco è stato fatto nei confronti di quest’uomo che, nel ruolo di Presidente della Sezione del Tribunale di Trapani “Misure di Prevenzione”, ha cercato di liberare la propria città dagli interessi illeciti di altri e che, come ama dire il figlio Giuseppe, «si sentiva in missione, mandato dallo Stato per applicare la giustizia. Ed è morto da servitore dello Stato».
Una vita spesa per lo Stato, ma un uomo dimenticato dallo Stato. E dopo trentatré anni rimane solo una domanda, la stessa che da quel 14 settembre del 1988 si pone Padre Giuseppe Giacomelli: «Di fronte ad un uomo così, perché questo silenzio?».